Massimiliano Musto

Il successo è un risultato,non l'obiettivo.

Oltre… le più semplici prospettive

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Evoluzione del Business Management

Stiamo affannosamente cercando soluzioni per migliorare le performance delle nostre aziende, con quelli che crediamo siano modelli innovativi di organizzazione, produzione, finanza e marketing, senza però ottenere valore a lungo termine. Volendo utilizzare un parallelismo con il famoso libro “Strategia Oceano Blu”: non facciamo in tempo a spostarci in un oceano blu che dopo poco ridiventa rosso e siamo costretti a ricominciare a cercare quella fetta di oceano che ci faccia navigare bene, almeno per un po’, questo comporta grande spreco di risorse economiche e di tempo. Uno dei principali motivi di questi enormi fallimenti è dovuto al fatto che aziende e governi danno per scontato alcuni fondamenti economici come se gli stessi non dovessero mai cambiare; purtroppo non è così.

Molte aziende hanno un anello debole che spesso la conduce al fallimento. Lo scopo di questo articolo è fare una riflessione per un modello di gestione diverso. Spero che condividiate con me le vostre considerazioni e le vostre riflessioni. La mail è oltreprospettiva@gmail.com .

Il mondo della produzione si trova oggi alla soglia di un cambiamento profondo, che può assumere i caratteri di una nuova (la quarta) rivoluzione industriale che prevede l’integrazione profonda delle tecnologie digitali nei processi industriali manifatturieri, cambiando prodotti e processi. Si dovrà necessariamente ripensare ai modelli gestionali ed all’organizzazione del lavoro. In particolare, in questo articolo mi soffermerò su due aspetti, quello organizzativo e quello relativo al marketing; a mio avviso sono le due aree manageriali più influenzate dai tempi correnti. Per meglio comprendere ciò che sta accadendo dobbiamo, anche se sinteticamente, rivedere il modo nel quale operiamo, la comprensione del sistema economico e la sua evoluzione che ci permette di riflettere su come possono evolvere le nostre aziende.

LA FINE DELL’ERA CAPITALISTA

“Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”

Secondo Alvin Toffler, la storia della civiltà umana può essere suddivisa in tre grandi periodi economici.

Il primo periodo è quello della società agricola con la terra quale capitale principale; il secondo periodo è rappresentato dall’era industriale con le macchine quale capitale principale; il terzo periodo è rappresentato dall’era dell’informazione con la tecnologia come capitale principale; io aggiungo che oggi stiamo vivendo il quarto periodo di internet con la partecipazione e la collaborazione quale capitale principale.

Le attuali regole economiche con le quali operiamo trovano radici nella metà del 1700, e con precisione il 9 marzo 1776, quando venne pubblicata la prima edizione de “The Wealth of Nations” di Adam Smith, dove si gettavano le basi per quella che viene definita economia classica e si individuano i principi fondanti l’economia capitalista. Non volendo fare una rivisitazione delle principali opere degli economisti classici, mi limiterò ad utilizzare i principali luoghi comuni in modo da semplificarne l’esposizione.

Adam Smith, tra i padri fondatori del capitalismo moderno, nel suo libro, postula che i mercati si autoregolano, domanda ed offerta si controbilanciano a vicenda. Se aumenta la domanda di un certo prodotto aumenteranno i venditori di quel prodotto e di conseguenza i prezzi delle loro merci, ma se i prezzi proposti dai venditori diventeranno troppo elevati, la domanda calerà, costringendo i venditori ad abbassare i prezzi (autoregolamentazione del mercato). Successivamente, Il filosofo Francese Say asserì che l’attività economica si autosostiene, le forze economiche si autosostengono, cioè permangono in movimento perpetuo fino a che non intervenga su di esse una forza esterna. Un prodotto che nasce o che muore, in quell’istante, apre lo sbocco ad altri prodotti. Successivamente la legge di Say è stata perfezionata asserendo che “L’innovazione tecnologica aumenta la produttività e permette al venditore di produrre una quantità maggiore di beni ad un costo unitario più vantaggioso. L’aumento dell’offerta di beni meno costosi genera una domanda e così facendo costringe i concorrenti ad escogitare altre tecnologie per aumentare la produttività e vendere i loro prodotti a prezzi sempre più competitivi, l’intero processo funziona come una macchina a moto perpetuo”.

Queste sono solo alcuni degli assunti che hanno regolato le economie dei governi, e nel quale si sono sviluppate le principali Teorie Manageriali.

Ma tutto questo è ancora vero?

Siamo talmente abituati a considerare il mercato capitalistico e il sistema di governo rappresentativo come gli unici mezzi per organizzare la società che trascuriamo altre possibilità. Già a metà del secolo scorso, Large e Keynes avevano intravisto le contraddizioni del sistema capitalistico, il dinamismo imprenditoriale che caratterizza i mercati in regime di concorrenza spinge in alto la produttività ed in basso i costi marginali. Di per se questo sistema contrae il profitto che di fatto è l’anima del sistema capitalistico. L’economista Jeremy Rifkin nel suo libro “La società a costo marginale zero” afferma che questa spinta del capitalismo stia andando alla deriva e che la spinta a produrre a costi sempre più bassi porterà a produzioni che, al netto dei costi fissi, avranno un costo marginale prossimo allo zero, il che significa che i prodotti saranno ceduti ad un prezzo prossimo allo zero (saranno quasi gratuiti), cosi la linfa del capitalismo, cioè il profitto, verrebbe meno. Di seguito riporto un esempio proposto dallo stesso Rifkin: immaginiamo un autore che vende il proprio libro (proprietà intellettuale) ad un editore in cambio delle royalties future. Prima di arrivare all’acquirente finale, il libro passa per un grafico, uno stampatore, grossisti e rivenditori. Tutti i soggetti coinvolti aggiungono al processo i costi di transizione, in modo da includere margini di profitto grandi abbastanza da giustificare il loro lavoro. Ma cosa accade se il costo del libro si avvicina sempre di più allo zero, cioè viene offerto ad un prezzo sempre più basso in nome della competitività e dell’efficienza?  Oppure cosa accadrebbe se lo stesso, venisse diffuso gratis? Se ci pensiamo un attimo è esattamente quello che è successo nel mondo della comunicazione, dell’informazione, dell’intrattenimento e dell’editoria. Molti autori, utilizzando internet, forniscono le loro opere a costi marginali prossimi allo zero oppure gratis. In questo modo l’intero settore organizzato sul vecchio schema dell’economia capitalista è entrato in crisi. Questo fenomeno non riguarda solo il settore dell’informazione ma piano piano si sta estendendo in tutti i settori.

Ma qual è il mondo al quale ci affacciamo?

L’economia capitalista sta fondendosi con un altro modello economico che ne sta modificando profondamente le basi. L’economia digitale o di internet o come vogliamo identificarla ha mutato radicalmente il modo di fare business. Oggi migliaia di persone, anzi miliardi di persone sono connesse tra loro attraverso internet, scambiano video, foto, audio, informazioni e comunicano tutto ad un costo marginale prossimo allo zero. Se solo 20 anni fa vi avessero prospettato una situazione di questo genere con molta probabilità avreste sorriso; nei prossimi anni sempre più beni e servizi saranno diffusi attraverso la rete a costi marginali prossimi allo zero. Questo nuovo modello sta caratterizzando sempre più settori, sta trasformando i consumatori sempre di più in “prosumers (cioè: consumatori che sono diventati produttori), esempi li ritroviamo nel settore dell’energia, delle comunicazioni, dell’intrattenimento, del turismo, ecc…; ma immaginiamo quanti nuovi prosumers avremo quando saranno diffuse le stampanti 3D. Questi sono solo alcuni esempi, poiché una parte sempre maggiore di beni e di servizi muove verso il quasi azzeramento dei costi marginali e diventa praticamente gratuita. Il mercato capitalistico, cosi come lo abbiamo inteso, cambierà e si ritrarrà in nicchie sempre più ristrette, dove le aziende vivranno ai margini dell’economia contando su di un numero di consumatori sempre più limitato e con prodotti molto specializzati.

 I mercati stanno cominciando a cedere il passo alle reti e la proprietà diventa sempre meno importante rispetto all’accessibilità. Il risultato è che al valore di scambio si sta passando al valore della condivisione.

Molti non immaginano un mondo nel quale la maggioranza dei beni e servizi sia a costo zero e che il profitto in qualche modo stia tramontando dando spazio ad un nuovo pensiero economico ed ad un nuovo atteggiamento imprenditoriale.

Ma in molti settori dell’economia gli operatori vedono trasformarsi milioni di individui da consumatori passivi a prosumers capaci di produrre da sé notizie, sapere, intrattenimento ed energia (con l’avvento delle stampanti 3D, presto anche oggetti). Questa massa di persone sta riducendo al minimo i propri acquisti nel mercato, molto spesso preferisce scambiarsi in un contesto di economia collaborativa beni già comprati. Privilegiano, insomma, l’accesso rispetto al possesso, limitando, l’utilizzo di ogni cosa, dalle automobili all’attrezzatura sportiva, al periodo di tempo effettivamente necessario. E questa attività si svolge pressoché interamente nei commons di internet, dove i costi marginali dello scambio di informazioni è quasi zero. Il fenomeno non ha ancora proporzioni bibliche, siamo tuttavia in presenza di una curva esponenziale, probabilmente irreversibile. Per l’industria pubblicitaria significa che il mercato è sempre più limitato. Poiché l’emergente economia sociale ha carattere distributivo, collaborativo e paritario, a determinare le decisioni economiche sono sempre meno le campagne pubblicitarie delle aziende per dare largo spazio alle raccomandazioni, recensioni, gradimento e passaparola tra amici e tra gruppi via Facebook, YouTube e altre centinaia di siti web e social network.

In definitiva daremo più spazio a quello che possiamo definire capitale sociale e non solo al capitale finanziario per ottenere una nuova forma di profitto. Le aziende dovranno cambiare il loro modo di fare marketing, di concepire l’organizzazione aziendale e la finanza.

IL NUOVO PARIDGMA MANAGERIALE

Questi cambiamenti esigono un profondo ripensamento delle principali discipline di management. Mutano le condizioni di mercato, mutano i comportamenti dei consumatori e gli atteggiamenti delle aziende devono per forza adeguarsi. Nell’attuale contesto competitivo, le organizzazioni non possono essere operatori isolati, ma devono diventare attori di una rete di partner che va dai dipendenti ai fornitori.

 Oltre Il Concetto di Classica Organizzazione

In un mondo che cambia e che si modifica con una velocità progressiva ed esponenziale, è fondamentale trovare nuovi sistemi di organizzazione, valutazione e misurazione efficaci. Occorre trovare nuovi paradigmi organizzativi sapendo adattare leggi e modelli al cambiamento, capendo quando è il momento di abbandonare meccanismi consolidati per adottarne di nuovi.

Io vi proporrò un modello organizzativo basato su tre diverse visioni organizzative: Meccanicistica, Olocratica e Metafora del cervello.

La visione classica delle organizzazioni è basata sul funzionamento tipico di un’organizzazione-macchina, che si basa su tre aspetti: logiche gerarchiche top-down, specializzazione dei compiti e specificazione dei piani operativi e strategici. Come già affermavano Burns e Stalker negli anni ’60, questo modello organizzativo funziona bene in contesti stabili e prevedibili ma può andare in crisi in situazioni di forte discontinuità. I problemi che ne derivano sono: basso senso di responsabilità diffusa, scarso spirito di iniziativa e limitata capacità di adattamento all’evolversi delle situazioni esterne. Gareth Morgan nel suo libro “Images of Organization”, pubblicato nel 1986 scrive:

“Nella misura in cui costruiamo organizzazioni rifacendoci ai principi meccanicistici, sviluppiamo “razionalità strumentale”, nell’ambito della quale gli individui sono considerati per la loro capacità di integrarsi e di contribuire all’efficiente funzionamento di una struttura predeterminata. Tutto questo va bene se si tratta di realizzare un obiettivo stabilito nell’ambito di un ambiente stabile, ma quando queste cose non si verificano, le organizzazioni progettate secondo questi principi vanno incontro a non poche difficoltà.”

Morgan propone, quindi, una visione diversa: l’organizzazione intesa come un cervello. Si tratta di una metafora molto affascinante e che appare coerente con l’attuale contesto ambientale e competitivo.

Morgan già qualche tempo fa propone di utilizzare il cervello come metafora organizzativa in grado di superare queste problematiche. La principale caratteristica del cervello risiede, infatti, nelle sue capacità auto-organizzative. “La proprietà del cervello è, secondo Gareth Morgan, quella di avere una struttura olografica, ossia ogni sua parte contiene potenzialmente le funzioni dell’intero organo. In tal modo se un trauma impedisce ad alcune parti del cervello di funzionare, le altre parti potranno subentrare per svolgere le funzioni prima svolte da quelle lesionate. La metafora del cervello suggerisce l’idea che le risorse umane presenti in un’organizzazione abbiano la capacità potenziale di sostituzioni indefinite”.

È possibile che, avvalendoci del cervello come metafora, si possa migliorare la nostra capacità di produrre organizzazioni in grado di funzionare in maniera flessibile e creativa.

 Sono quattro i principi attraverso cui è possibile costruire un’organizzazione che funzioni come un cervello.

1. Interdipendenza: la logica organizzativa classica tende a separare le funzioni delimitandole nei propri ambiti di attività e responsabilità. Per favorire l’emergere di dinamiche auto-organizzative, occorre progettare organizzazioni fortemente interconnesse.

2. Ridondanza: accanto alla tradizionale specializzazione dei ruoli e dei compiti, per rendere l’organizzazione flessibile occorre sviluppare competenze polivalenti e quindi avviare un processo parallelo di de-specializzazione. In assenza di una qualche forma di ridondanza funzionale e cognitiva, il sistema perde elasticità e capacità auto-organizzativa, diventa rigido e dipendente da input gerarchici.

3. Bassa specificità: uno dei principi su cui si basa il modello classico di organizzazione vuole che le procedure organizzative e i piani operativi siano definiti il più chiaramente possibile. Questo inibisce la possibilità di auto-organizzazione del sistema. C’è un insegnamento che proviene dalla cibernetica che può essere di aiuto per superare questa situazione: non concentrarsi su ciò che occorre fare, bensì sulle azioni che si vogliono evitare. Invece di fissare un modus operandi fisso e dettagliato, si individuano i vincoli che non si vuole vengano superati. Definire solo ciò che si vuole evitare lascia il campo più libero, creando uno spazio dinamico e mutevole per un ventaglio di azioni possibili all’interno dei limiti stabiliti.

4. Concentrarsi sulle condizioni di partenza: per favorire l’emergere di dinamiche auto-organizzative, la leadership non deve focalizzarsi sugli output attesi in una logica “push”, bensì preoccuparsi di creare le giuste condizioni di partenza. Creare quindi un contesto organizzativo che favorisca l’emergere di determinati comportamenti coerenti con gli scopi dell’organizzazione.

In un’impresa-macchina c’è una sola persona alla guida, in un’impresa-cervello il volante viene dato in dotazione a tutti.

I quattro principi qui sinteticamente descritti delineano un’organizzazione molto diversa da quella a cui siamo abituati. Non è difficile intuire come il maggiore cambiamento rispetto alla visione tradizionale dell’organizzazione riguardi le logiche di potere. Se pensiamo a quante difficoltà e resistenze i manager e le imprese manifestano tuttora nell’adozione di sistemi organizzativi “organici”, possiamo ben dire che i principi proposti da Morgan possono essere considerati un contributo operativo per progettare organizzazioni diverse da quelle di stampo burocratico. Organizzazioni flessibili, adatte a competere in contesti fortemente turbolenti.

L’altro modello che voglio accennarvi è quello della olocrazia. Un modello, quindi, che elimina l’approccio centralizzato tipico delle democrazie rappresentative, le quali stanno ampiamente dimostrando di essere non solo inefficienti ma anche causa di distorsioni come corruzione, concussione, clientelismo proprio perché accentrano il potere. L’olocrazia (o olacrazia) è applicabile a qualsiasi sistema organizzato. In buona sostanza l’olocrazia è una tecnologia sociale o un sistema organizzativo di governance nel quale l’autorità e le decisioni sono distribuiti nell’ambito di una “Olarchia” di gruppi auto-organizzati anziché fissati in una gerarchia di tipo manageriale e come forma organizzativa aziendale. “Olarchia” nella terminologia di Arthur Koestler, è una connessione fra due Oloni, in cui l’Olone è al contempo una parte e il tutto. Brian Robertson, autore di “Holocracy”, ha previsto che ognuno, nell’ambito lavorativo, si assuma le proprie responsabilità, passando dall’attuale sistema operativo a piramide a quello a cerchi nel quale non esisterà più il lavoro subalterno. Il funzionamento di questo particolare sistema lavorativo, olarchico, ovvero olocratico appunto, è impostato un po’ come i sistemi operativi di Windows, Mac o Linux che non prescrivono la maniera in cui le cose vanno fatte, si limitano a stabilire le regole alla base del gioco, cioè come devono funzionare le relazioni lavorative per far sì che tutti camminino nella stessa direzione, quindi non si tratta assolutamente di una struttura anarchica, ma semplicemente di un’architettura diversa.

A mio avviso tutte le visioni proposte sono interessanti, ma prese singolarmente poco applicabili nelle organizzazioni perché in tutte non si tiene conto della parte umana (come ad esempio l’egoismo dell’individuo) che non ne permette una corretta applicazione.

Per avere una prospettiva più accurata ed equilibrata, bisogna guardare al di là delle belle parole che descrivono queste strutture. Il modello che stiamo sperimentando è quello di costruire un’organizzazione che funzioni secondo lo schema biologico che caratterizza l’uomo ma più in generale la natura. Il modello non presenta gerarchia particolarmente pronunciate ma centri di definizione di responsabilità, una leadership definita e chiara, centri di comando (di responsabilità) anch’essi definiti e chiari. Bisogna immaginare dei cerchi l’uno all’interno dell’altro, dove sono definite le responsabilità e la governance, il lavoro viene organizzato in team che si creano a secondo del caso e delle competenze necessarie, il team nomina un suo referente e si autoregola. In quest’ottica le aziende devono avere caratteristiche molto snelle con pochi livelli decisionali e ben definiti, al di sotto dei quali si formano dei gruppi che si autogestiscono e che sono collegati tra loro attraverso una fitta rete di reticoli che si modificano a secondo delle circostanza. Questa rete deve funzionare esattamente come accade alle reti neurali del cervello. Devono formarsi a seconda della specifica esigenza e nominare un Responsabile di team. L’azienda, come il cervello, deve essere formata da reti tra loro collegate a seconda delle circostanze e che portano la loro conoscenza arricchita dalle singole connessioni. Anche qui quello che conta è per cosi dire il cablaggio dei neuroni, cioè delle persone. Per poter ben funzionare questa nuova struttura organizzativa deve avere delle funzioni base, istintive, una sorta di tronco encefalico, formato da regole precise di comportamento rispetto alle diverse situazioni, regole precise sul funzionamento dell’organizzazione nonché da una mission, vision e valori definiti. Queste continue connessioni, che diventano capitale esperienziale per l’organizzazione, consentono di adeguarsi rapidamente alle nuove situazioni. Anche qui viene un parallelismo con un termine proveniente dalle neuroscienze, “la Neuroplasticità”, cioè la capacità del sistema nervoso di modificare l’intensità delle relazioni inter neuronali (sinapsi), di instaurarne di nuove e di eliminarne alcune. Questa proprietà permette al sistema nervoso di modificare la sua struttura e la sua funzionalità in modo più o meno duraturo e dipendente dagli eventi che li influenzano come ad esempio l’esperienza.

In definitiva le organizzazioni sarebbero in grado di modificare la propria struttura in risposta a una varietà di fattori intrinseci o estrinseci, sarebbero capaci di adattarsi a situazioni di diverso genere, attraverso la modificazione delle connessioni interne o con l’utilizzo di nuove connessioni, oppure con connessioni prima inattive.

 Strutture di questo tipo portano l’individuo al centro e sono costantemente impegnate in processi formativi. In questo tipo di organizzazioni gli individui non hanno più un ruolo gerarchicamente definito, con difficoltà di ritagliarsi nuovi spazi, anzi hanno dei portafogli composti da vari ruoli molto specifici, che plasmano e rivedono per rispondere ai bisogni organizzativi ed individuali in divenire.

L’affidabilità, la flessibilità, la responsabilizzazione diventano elementi fondanti del nuovo rapporto di lavoro all’interno dell’azienda.

Ricapitolando le organizzazioni, nella nuova era, per rispondere alle esigenze del mercato devono ripensarsi non più da un punto di vista meccanicistico, dove la forma più diffusa di organigramma è il gerarchico funzionale, ma devono sempre più assomigliare ad organismi in grado di adattarsi ed adeguarsi alle circostanze. Cosi articolata l’organizzazione si fonda su 5 principi:

  • Autogestione: i team si auto gestiscono, prendono le decisioni direttamente con il loro team leader, sono caratterizzati da un basso controllo ed un alto autocontrollo, rispondono dei risultati e non delle attività, ovviamente in linea con i valori aziendali.
  • Affidabilità: il concetto di affidabilità può assumere molte sfumature come ad esempio assicurare ritorni prevedibili per gli azionisti o rispettare le normative. Più in generale il team deve dare certezza nel raggiungimento dell’obiettivo con una spiccate capacità di problem solving.
  • Flessibilità: la capacità di adattarsi alle singole esigenze e la possibilità di far parte di diversi team rende gli individui, e quindi i gruppi, maggiormente flessibili.
  • Adattabilità: la forza del nuovo modello è la capacità di affrontare il nuovo costantemente.
  • Responsabilizzazione: ogni team è responsabile del proprio operato, sia per il singolo obiettivo sia per il riflesso che questo ha sulla struttura, le decisioni vengono prese all’interno del gruppo (dove sono presenti le maggiori informazioni).

La governance in questo modello si preoccupa di definire ed attuare Mission,Vison e valori che diventano l’asse portante per tutti i gruppi che nascono; definisce gli obbiettivi e si preoccupa di sostenere e supportare tutti i gruppi aiutandoli nell’autoregolazione. Il compito più importante resta quello di definire le regole all’interno delle quali i gruppi devono operare.

Il Nuovo Paradigma del Marketing

Cosa Cambia per il management?

Ogni anno vengono pubblicati migliaia di libri e di articoli sulle modalità di gestione e di raggiungimento del successo o per un’azienda. Molti autori tendono a sovrapporre il successo con il raggiungimento di qualche obiettivo, Hardy Wagner lo ha in sintesi definito in questo modo:

<<Il successo è il modo ed il grado di raggiungimento di un obiettivo>>.

Personalmente ho sempre avuto una visione più ampia del successo, legata al concetto di organizzazione aziendale e di azienda come organismo vivente, quindi non avendo una visione meccanica, per me il successo è legato alla sopravvivenza. Credo che: “il successo sia un risultato, non un obiettivo”. Legando il concetto di risultato a quello di sopravvivenza dell’organizzazione si riesce ad apprendere a pieno il significato di “sopravvivere” (dal latino supravivere, composto da supra – sopra – vivere –vivere), cioè del vivere sopra, del vivere in condizioni ritenute buone anche dopo che si sono verificati eventi sfavorevoli. Considerando l’impresa come un organismo vivente, anche perché è formata principalmente da organismi viventi e non solo da macchine, ritengo utile applicare i principi universali della natura anche alle organizzazioni.

Un primo principio che ritengo utile riportare e che occorre sempre ricordare è quello espresso da Charles Darwin nel 1859 in un suo importantissimo articolo che possiamo sintetizzare cosi: in natura sopravvive il sistema che ha la maggiore capacità di adattamento a condizioni ambientali che cambiano sempre più rapidamente. L’adattamento all’ambiente non significa subire passivamente quello che succede, ma è la capacità di mutare in sintonia con l’ambiente in uno scambio continuo e reciproco di comportamenti al fine di adattarsi alle nuove condizioni ambientali nel quale vivono.

Un altro principio che trovo interessante riportare è la scoperta fatta dal Russo Georgvi Gause: “in natura non possono coesistere nello stesso spazio due organismi che si nutrono delle stesse cose”.

Se ci soffermiamo un attimo su questi due semplici principi ci rendiamo conto di come siano alla base delle più alte considerazioni fatte sulla governance aziendale. Possiamo quindi percepire il concetto di “adattamento” come convivenza con il mercato, saper leggere il tempo nel quale si vive (marketing), mentre il principio di Gause Georgvi è alla base della differenziazione (strategia).

Non esiste una ricetta brevettata per il successo, però ci sono considerazioni che si possono fare e che possono aiutare a trovare quegli elementi che portano un’azienda a primeggiare rispetto alle altre.

 IL MARKETING RETICOLARE

Nuovi concetti di marketing emergono sempre in reazione a cambiamenti dell’ambiente di business.

I cambiamenti tecnologici e sociali stanno portando le aziende ad avere un diverso approccio con il mercato, soprattutto per quanto riguarda la comunicazione. Nel nuovo marketing le imprese si differenziano in base ai valori di cui sono portatrici.

Per comprendere meglio il Marketing è opportuno prendere in considerazione le forze principali che oggi plasmano l’ambiente di business, dando vita ad una nuova era:

  • Partecipazione;
  • Paradosso della globalizzazione;
  • Pro-sumers;
  • Conoscenza;
  • Creatività sociale;
  • Co-Creazione;
  • Comunità;

Si può osservare come siano proprio queste le forze che stanno trasformando i consumatori, rendendoli più collaborativi, più attenti agli aspetti culturali del consumo e, senza dubbio, maggiormente guidati dagli aspetti spirituali tipicamente umani. Analizziamoli.

PARTECIPAZIONE

Le nuove tecnologie informatiche, la connettività, i social media ed il mobile hanno cambiato comportamenti umani e sociali aumentando le interconnessioni tra le persone e le aziende. Queste tecnologie permettono ad ognuno di noi di connettersi e collaborare con altri; Scott McNealy, CEO di Sun Microsystem, ha etichettato questo periodo come “era della partecipazione”. Come riportato da Kotler nel suo Marketing 3.0, uno dei fattori abilitanti di queste tecnologie è l’affermarsi dei media sociali (social media). Noi li classifichiamo in due ampie categorie: una comprende i media sociali espressivi, tra cui i blog, Twitter, YouTube, Facebook ed altri social network; l’altra annovera i media collaborativi di cui sono un esempio Wikipedia, Rotten Tomatoes, ecc…

Questi strumenti, in forza della loro diffusione e popolarità, sono penetrati nel mondo del business e facilitano lo scambio di opinioni tra i consumatori che si ritrovano ad influenzarsi tra loro, riducendo il condizionamento della pubblicità classica (es: spot televisivi).

I social media prefigurano il futuro delle comunicazioni di marketing aiutando le aziende a conoscere meglio i loro clienti e il loro mercato. Le imprese e gli operatori di marketing non detengono più il controllo dei loro brand perché devono confrontarsi e competere con la forza collettiva dei consumatori. Questa forza si esprime non solo nell’aiutare le aziende a comprendere il punto di vista dei consumatori ma anche nell’estrema forma di collaborazione che è la co-creazione di prodotti e servizi.

A mio avviso il più bell’esempio di partecipazione e collaborazione nel settore dell’editoria e dell’informazione è Wikipedia, un’enciclopedia scritta da miglia di persone.    

PROSUMERS

La nuova ondata tecnologica consente alle persone di trasformarsi da consumatori a prosumers (produttori+consumatori). I consumatori diventano produttori, in alcuni casi in fase di progettazione ed in altri proprio nelle fasi finali di produzione del prodotto. Basti pensare alla grande rivoluzione avvenuta nel settore delle informazioni e dell’audiovideo e soprattutto a ciò che accadrà quando saranno diffuse le stampanti 3D.

PARADOSSO DELLA GLOBALIZZAZIONE

In un suo libro di qualche anno fa Friedman sostenne che vivevamo in un mondo senza confini in cui beni e persone si spostano liberamente. La globalizzazione, per quanto opportunità per tutte le nazioni del mondo, rappresenta anche una minaccia per ciascuna di esse. L’esempio più eclatante del paradosso della globalizzazione è che alla ricerca del profitto le aziende hanno delocalizzato le produzioni in paese con costi favorevoli, impoverendo il loro paese di origine. Di conseguenza ogni paese tenderà a difendere il proprio mercato nazionale e la globalizzazione scatenerà la nazionalizzazione. La diversità di regole e di culture non ha permesso alla globalizzazione di autoregolarsi e riequilibrare tutte le alterazione dovute allo spostamento di beni e capitali ma ha generato una serie di paradossi dando la sensazione che abbia danneggiato più economie di quante non abbia favorito.

Il futuro sarà caratterizzato da comunità ristrette a forte identità locale ma con una visione globale.

CONOSCENZA

Internet ed i social hanno aumentato la capacità di circolazione delle informazioni, creando consumatori sempre più informati e sempre più consapevoli. Inoltre ha generato il fenomeno secondo cui molti pensano che, dopo aver letto delle informazioni su internet, si acquisiscano specifiche competenze, come ad esempio accade nel settore food, sport, ecc….

Le aziende dovrebbero curare molto di più questo aspetto del marketing.

CO-CREAZIONE

Questo termine è stato utilizzato per la prima volta da C.K. Prahalad per descrivere il nuovo approccio all’innovazione; si stanno sviluppando nuovi modelli per creare prodotti ed esperienze attraverso la collaborazione fra imprese, consumatori, fornitori e partner tra loro interconnessi. Infatti l’esperienza che accompagna un prodotto non è mai circoscritta al solo prodotto in quanto tale, ma è il risultato dell’accumulo delle esperienze individuali dei vari consumatori. È questo complesso di esperienze che crea il massimo valore per il prodotto stesso. Quando poi i singoli consumatori utilizzano materialmente il prodotto, ne personalizzano l’esperienza in funzione dei loro bisogni e desideri, che sono unici. 

La co-creazione opera su due diverse aree: una prima verticale, nella quale le aziende incentivano e collaborano con i propri consumatori, ed una seconda, dove sono i consumatori che collaborano tra loro e co-creano nuovi prodotti o nuovi usi; tocca alle aziende saper cogliere l’opportunità.

COMUNITA’

La tecnologia ha incentivato il formarsi di comunità virtuali e non solo, interconnettendo persone/consumatori che prima non avrebbero mai avuto la possibilità di relazionarsi. Questo fenomeno ha dato vita ad una riflessione, fatta da Seth Godin, secondo cui i consumatori desiderano confrontarsi con altri consumatori e non con le imprese; Godin sostiene che le imprese devono incentivare queste comunità che si vanno formando e che lui definisce Tribù.

I consumatori possono organizzarsi in comunità sotto diverse forme. Secondo Susan Forunier e Sara Lee i consumatori possono aggregarsi in forma di:

Gruppo: i consumatori aggregati in un gruppo condividono gli stessi valori, anche se non necessariamente interagiscono tra loro, il collante è il brand e quello che ispira.

Rete: i consumatori interconnessi in una rete sono rappresentati dalle tipiche comunità che si trovano sui social network, dove il legame delle relazioni è tra i membri nei rapporti one-to-one.

Centro Focale: i consumatori connessi ad un centro focale sono rappresentati dalle comunità che si riuniscono intorno ad una forte figura, come ad esempio il Leader oppure ad un’idea.

Tutte le comunità esistono per servire i membri che ne fanno parte, le aziende dovrebbero solo cogliere le opportunità che nascono dalla relazione con queste comunità.

In ultimo, ma non per importanza, a queste sette forze, che favoriscono la creazione di un ambiente di business innovativo, aggiungerei un’ulteriore forza propulsiva:

 IL CUORE.

Nel prossimo futuro, infatti, la relazione tra imprese e consumatori sarà sempre meno fredda e sempre più “umana”. Gli operatori di marketing dovranno sforzarsi di comprendere l’anima dei consumatori o della comunità al quale si rivolgono. In futuro parleremo dell’<<anima della vendita>>.E’ questo il motivo per cui ritengo che le aziende debbano cominciare ad immaginare che il profitto in senso assoluto non è tutto, e che le scelte sempre di più dovrebbero esser prese considerando anche fattori quali i valori e credibilità. Dunque, le imprese che vogliono riuscire a diventare un riferimento per il cliente devono condividere gli stessi valori e gli stessi sogni ma soprattutto devono esser in grado di fare delle concrete azioni per mostrare la capacità di realizzare le promesse.

 
 

 

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